Una giovane donna e una storia da incidere. Incidere nella memoria o ri-creare nell’immaginazione. Davanti agli occhi un quadro, un uomo di sessant’anni e sessant’anni di un uomo che ha avuto un’amnesia temporanea e vive in un camper. In mezzo sette anni di distanza e un’epoca del rancore. È la voce sola della giovane donna a incidere, a comporre il dialogo, a prefigurare il ricordo di un vissuto o soltanto l’illusione che un giorno tutto possa accadere davvero. Una storia inventata a tutti gli effetti anche se qualcuno, con la cura dello sguardo, potrebbe percepire in filigrana un’eco distorta e lontana proveniente dal vecchio Edipo a Colono Sofocleo: l’eroe della cattiva sorte, il “supplice che porta salvezza” scacciato e maledetto che vaga cieco e ramingo accompagnato dalla figlia Antigone. Una storia da decodificare. Da ricomporre con gli oggetti in lontananza nel tratteggio surreale del sogno e della memoria. Una storia sotterranea da portare alla luce.
Solo alla fine si esce allo scoperto. All’aperto di un bosco sacro che non è un bosco, ma un parco di periferia e che di sacro ha forse solo l’abbandono.
E come nel “posto delle fragole” di Bergman, lo specchio della memoria diviene un’esperienza di autenticità in cui la riconciliazione avviene per vie impensate e inadatte. Perdonare. Perdonarsi. Nascere. Al tramonto. In Occidente.